venerdì 18 maggio 2012

Getting Dr.ank










Intervista allo shaper Marco Rizzo

                                                 

a cura di Nicola Zanella
Foto: Alessandro Puccinelli





Basta entrare nel suo studio, nel quartiere artigianale di Pisa, per toccare con mano un piccolo miracolo. L’odore delle tavole appena uscite dalla glassing room, le foto impolverate appese ai muri verde scuro e la musica 70s in sottofondo creano uno spazio sacro, aprono una time-box che attraversa tre continenti e cent’anni di boardriding. La gamma di tavole presente é vastissima, spazia dal traditional “log” anni ‘50 agli ibridi più contemporanei. Marco è idealmente un interprete: una persona capace di rendere fruibili alla “sua gente” concetti e forme nati e maturati in altri ambiti culturali. Ambiti che Marco “dall’alto della sua modestia” frequenta e coltiva da quasi due decenni. Dopo aver “fatto bottega” presso amanuensi come Takayama, Jones e Ruddy, e aver surfato alcuni dei più blasonati spot del pianeta, questo toscanaccio diretto e pungente ha messo la sua pialla a disposizione dei surfisti italiani, adattando le forme della tradizione californiana e australiana alle esigenze reali del Mare Interno. Persone come lui costituiscono la linfa vitale del surf italiano, l’anello di congiunzione tra la periferia ed il centro della surf-culture planetaria. Ed è per questo che merita il nostro rispetto. NZ
Iniziamo tralasciando il surf e le tavole. Parlami del tuo background personale. In che contesto sei cresciuto? In cosa sfogavi l’energia che poi hai dedicato al surf?
Il primo passo lo feci, forse, a quattordici anni quando mi iscrissi all’Istituto Tecnico Nautico di Livorno. Era la prima, grande avventura della mia vita! Studiare in un’altra città, con una discreta indipendenza dalla famiglia in età adolescenziale, era un’occasione che non avrei potuto farmi sfuggire. Anche se la carriera in Marina Militare (in cui mio padre tanto sperava) non venne mai, quel periodo fu una prova generale per la mia vita da adulto. Livorno tra la fine degli anni ‘80 e i primi del ‘90 era, come lo è tutt’ora, una città aperta, cosmopolita e fantasiosa. Stava imperversando, a scuola come nelle piazze principali della città, la surf-skate revolution. Da Steve Caballero a Tony Hawk nello skate, da Christian Fletcher a Tom Curren nel surf, gli idoli dei ragazzi, quelli non fagocitati dal calcio, erano loro. Il cammino verso realtà non omologate e alternative continuava, intanto, anche nella mia città natale, Pisa. La musica è stata per me fonte di energia e di metamorfosi, anche prima di scoprire il mare e le onde. Al tempo esisteva il centro sociale Macchia Nera, aperto ai circuiti internazionali della musica underground e, visto il contesto temporale, hardcore/punk e metal. Gruppi e personaggi del calibro di Soundgarden, Bad Religion, Black Flag, varcavano la soglia di questo strano posto, popolato per metà da appassionati di musica, per l’altra metà da ribelli sfrattati dal tessuto sociale e tossici di eroina. Ancora non si erano accesi i riflettori sull’ultimo movimento musicale del millennio, il Grunge. Tra quelli della mia generazione c’era la sensazione che vi fossero altri percorsi da sperimentare, altri modi di vivere e di pensare, diversi da quelli proposti dall’Istituto Nautico e dai media di allora.
Longboarding e Pisa. Due ambiti culturali diversi ma che sembrano andare benissimo assieme vista la fiorente scena long nella tua zona. Come é nato questo connubio e cosa lo rende forte?
Un giorno del ‘91 un mio carissimo amico, Alessandro Bertel, prestandomi una tavola e portandomi a cavalcare le prime onde, finalmente mi illuminò. La confusione e il disagio generazionale venivano spazzati via da una doccia d’acqua di mare. Mentre il nostro gruppetto di 4-5 pseudo-surfer prendeva confidenza con queste sinusoidi liquide, poco lontano un altro gruppo stava scivolando con delle tavole molto più lunghe delle nostre; erano i primi longboard. Uno di questi ragazzi era Luca Forte, bravissimo longboarder pisano trapiantato oggi in California, figlio di uno dei primi surfisti di Pisa, Sandro. Sandro Forte, classe 1941, è stato, insieme ad altri tre ragazzi, Michele, Sergio e Alberto, il punto di partenza della nostra scena. Già nel ‘71 affrontava le onde con attrezzature che venivano dal mondo della subacquea e della falegnameria. Sandro costruiva le tavole in abete leggero, compensato di pioppo e resina epossidica, e d’altronde non poteva essere diversamente; l’Italia ha nel suo patrimonio genetico naviganti eccezionali e maestri d’ascia di prim’ordine. Fu lui a passare il testimone al figlio e ai suoi amici. Nei primi anni ‘90 surfavamo a Marina di Pisa, onde perfette per l’arte del longboarding, lunghe e con una discreta potenza, ma non troppo ripide. I beach-break erano di buona qualità e il fondale degradante ne addolciva l’irruenza. Oggi purtroppo tanti di quei break non esistono più, cancellati dalle dighe messe a protezione degli arenili. Iniziammo a surfare con questi ragazzi e, tra la diffidenza del primo momento e la gelosia nel condividere una cosa bella, si instaurò un rapporto di amicizia che, negli anni, si sarebbe radicato in profondità. Arrivarono poi i primi viaggi a Biarritz e nei Paesi Baschi, per qualcuno del gruppo le Hawaii e poi, la California. Nel 1999 il primo viaggio alla scoperta della mecca del surf su tavola lunga, insieme a Los Amigos, come ci chiamavano affettuosamente a Malibu. Vedere da vicino le evoluzioni di surfer fortissimi, da Joel Tudor a Mitch Abshere, da Josh Farberow a Jimmy Gamboa, oltre che emozionante, si rivelò molto utile, sia a livello di tecnica in mare che per capire molte cose sullo shape delle tavole. Quell’anno lavorai come assistente shaper di Chris Ruddy, che al tempo era il proprietario di Ukulele Surfboards. Col senno del poi, mi rendo conto che mi prese a lavorare senza una reale necessità; avevo praticamente finito i soldi con largo anticipo rispetto ai tre mesi del visto turistico e Chris mi aiutò a restare fino alla fine. Nel frattempo, proprio grazie a esperienze di questo tipo, il livello nel nostro home spot saliva esponenzialmente.
Raccontami della prima volta che sei entrato in una shaping room e del fascino che suscitano gli utensili, le dime di legno, il profumo di resina. Cosa ti ha spinto a fare il grande passo, e costruire la tua prima tavola?
Il primissimo passo lo feci nel 1994, in una azienda che costruiva windsurf. L’anno successivo entrai a far parte della neonata Eclipse Surfboards, ma subito dopo la lasciai. Fui infatti ingaggiato come laminatore da Costa Ovest Surfboards, factory di Riccardo Zorzit Lapasin. Il laboratorio di Costa Ovest era bellissimo, entrarvi la mattina era un piacere. Tavole, colori, il profumo della resina: un sogno. Viareggio era, allora come oggi, all’avanguardia nel campo della nautica; abili artigiani si incontravano ovunque, naturale quindi trovarne qualcuno che si dedicasse alle tavole. Riccardo è stato il mio primo maestro. A lui devo tanto, ma una cosa su tutte mi ha insegnato: l’umiltà. Uno shaper, un artigiano della tavola, specie se proveniente da un paese “in difetto” come può essere l’Italia, non può non essere umile. Puoi avere una buona manualità, e questa è una dote innata, ma tutti i parametri che compongono una tavola, le linee d’acqua, i bordi, la distribuzione del volume, se non sapientemente assemblati tra di loro, rendono il lavoro nullo. Serve creare un link con la tradizione. All’inizio tutto quello che puoi fare è copiare, e sperare di farlo bene. E parallelamente cercare di capire cosa stai copiando, perché, e come funziona. E qui entra in gioco il tempo, i test, i primi successi, gli inevitabili errori. La prima tavola è nata nel 1997, nel garage di casa dei miei genitori. Era di polistirolo e resina epossidica in quanto i blank di poliuretano che utilizzo oggi erano di difficile reperibilità. La voglia di sperimentare, unita alla consapevolezza che per fare surf in Italia ci volesse tempo libero e indipendenza, mi hanno spinto a creare il marchio Dr.ank Surfboards. A quindici anni da allora, sono in grado di costruire una tavola che rispetta le linee d’acqua della tradizione, adattandole alle condizioni specifiche del Mediterraneo e al rider che me la commissiona.
In un’attività come il surf, con oltre 2000 anni di storia, costruire tavole significa necessariamente aver digerito il passato. Raccontami quali sono le epoche e gli shaper che hanno influenzato il tuo lavoro di oggi.
Sono dell’idea che uno shaper debba fare surf. La mia evoluzione di costruttore è andata di pari passo con quella di surfista, quindi venendo dalla scuola “longboard”, i miei primi modelli di riferimento sono stati le tavole classiche, pesanti e robuste. Mano a mano che crescevo come surfer si sviluppava anche lo shaping, e con questo tutti i processi costruttivi che stanno dietro ad una tavola: glassing, sanding ecc. In quest’ottica uno dei miei modelli di riferimento è stato Donald Takayama, che assieme ad un giovanissimo Joel Tudor sono stati i precursori del movimento long retrò nei primi anni ‘90. Negli anni a venire, complici esperienze surfistico-lavorative a cavallo tra Nuova Zelanda e Australia, altri maestri avrebbero ispirato le mie linee attuali. Simon Jones (fondatore di Morning Of The Earth Surfboards), con i suoi modelli ispirati agli anni ‘70 ed al film omonimo e Paul Hutchinson (shaper di Beau Young ) hanno contribuito alla mia crescita professionale, anche se il vero salto di qualità è avvenuto lavorando alla Hawaiian Pro Design di Donald Takayama ad Oceanside. Esperienza bellissima, fortunatamente ripetuta più volte per periodi prolungati. Stare a stretto contatto con uno dei maestri dello shaping mondiale mi ha lasciato un background ampissimo, dal quale attingo tutt’oggi. Devo ringraziare Donald di cuore. Ha donato parte della sua infinita conoscenza ad una persona giovane e volenterosa, quale ero io, a dimostrazione del fatto che quando credi profondamente in una cosa, trovi sempre la tua strada e qualcuno che ti aiuta. Dopo l’esperienza con Donald una nuova luce illuminava i miei blank, non solo quella dei neon blu della mia nuova shaping room. I passaggi erano più sicuri, le linee d’acqua certe, i tail erano quelli giusti. Insomma, si era aperta la porta della fiducia in me stesso. Altri personaggi che ammiro per il loro operato e ai quali mi ispiro sono Skip Frye, vero maestro di fluidità, Mark Andreini per la sua enorme esperienza e professionalità e, tra i più recenti e innovativi dell’area californiana, Chris Christenson. Ho avuto modo di conoscere quest’ultimo al Fish Fry di Viareggio nel 2010 e di visitare la sua factory nell’ottobre dello scorso anno e, dopo aver provato alcuni dei suoi modelli e parlato con Chris stesso di pinne, bordi e carene, ho ampliato la mia visone sulle nuove tendenze, sia nel campo delle tavole classiche che delle shortboard. Tornando alle esperienze del passato, sono state proprio queste a farmi decidere di smettere di girare per il mondo e fermarmi nel mio paese natale, e fare le tavole. Vista la situazione economica e sociale che viviamo e le tante sfumature proprie del surf nostrano, a volte mi chiedo se non avessi fatto bene a rimanere a lavorare all’estero. Ma ci sono cose che sfuggono alla razionalità e quello che conviene, non sempre coincide con quello che vorresti. Io volevo fare le tavole, in Italia, per la mia gente. Tavole che aiutassero la surf-culture nostrana a crescere e svilupparsi. E poi, se non fossi tornato, non avrei conosciuto mia moglie Monica, e non avrei avuto da lei in dono i miei due figli, Greta e Sebastiano. Era scritto così.
New school longboarding VS old school longboarding. Tu produci tavole adatte ad entrambi gli approcci ma vorrei sapere quale é la tua opinione personale. Quale é lo stile ed il flow che cerchi personalmente in mare?
Il mio stile personale di surf è piuttosto semplice. Nel mio repertorio non ci sono grandi e radicali manovre, prediligo le onde di buone dimensioni, e cerco la linea alta dell’onda. Curve ampie, tanta velocità e glide: solitamente ho un ottimo trim e resto molto vicino alla schiuma, cercando il tubo. Questo ovviamente quando l’onda lo permette, in altri casi uso tavole diverse, più dinamiche e moderne. Avere più tavole nel tuo quiver ti costringe ad adattarti alle regole che la tavola stessa impone. Questo si traduce in un reale godimento nella surfata, se hai scelto la tavola giusta per le onde che andrai a cavalcare, e in una crescita stilistica personale. Credo che chi si limita a surfare sempre con una tavola, o peggio ancora ricompra la stessa dopo averla rotta, non possa crescere tecnicamente. Questo vale per quanti desiderano fare surf in maniera seria e profonda; chi ha l’esigenza di scivolare le onde saltuariamente e per puro passatempo non necessita di tante tavole. Dal punto di vista stilistico l’esperienza che mi ha coinvolto maggiormente è stata la produzione di Shadow Lines nel 2007. Penso che quel documentario, pur se innocente e forse immaturo, abbia contribuito alla nascita del movimento retrò in Italia, aprendo la strada a tante produzioni che lo hanno seguito.
Parliamo del presente/futuro. Il surf commerciale, in Italia sta subendo un ridimensionamento legato alla crisi. Come stanno reagendo i piccoli artigiani come Dr.ank?
Dobbiamo partire dal presupposto che noi shaper ci muoviamo su un livello più basso rispetto all’economia generale, come se stessimo su una ruota che gira diversamente, forse più lentamente. C’è poco di commerciale nella mia attività, sempre che per commerciale si intenda il seguire le logiche e le linee di mercato. Costruisco tavole di svariati tipi: longboard, ma anche shortboards nonché fish, twin fin, quad, egg, e tutte le “alternative boards” in genere. Mi può capitare di strizzare l’occhio alla tavola in voga in quel momento, ma è una condizione del tutto relativa. Lavorando per tutto il mercato italiano mi sono reso conto che ogni regione, ogni microarea, ha le sue peculiarità e le sue tendenze. Facendo una media degli ultimi anni per esempio, la costa est ha visto lo svilupparsi di tavole tendenzialmente larghe e con buon volume. In questa costa si sono diffusi molto i fish e gli egg, dolci e permissivi, adatti a surfer non necessariamente esperti e ad onde meno che perfette. La costa di ponente, avendo un fetch decisamente più ampio, gode di condizioni più variegate, anche se molto spesso il divertimento viene garantito da tavole leggermente più larghe e voluminose. Concettualmente un surfer di medio livello, con un paio di tavole nel proprio quiver, riesce ad affrontare in tranquillità la maggior parte delle condizioni; una tavola permissiva e una più tirata per le giornate di buona qualità sono sufficienti. Un discorso a parte merita l’isola felice, la Sardegna. Le condizioni di onda, paragonabili a quelle oceaniche per potenza e qualità, lasciano spazio a tutte le tipologie di tavole; dal kneeboard al longboard, dallo short ai twin-fin e quad passando per i single fin. Per tutte e tre le macro aree vale sempre e comunque la buona regola che se scegli la tavola giusta per le condizioni che andrai ad affrontare, ne trarrai il massimo godimento. Il concetto di quiver non deve rimanere un’utopia, specie per quei surfisti che hanno intenzione di fare questo sport al massimo delle loro capacità. Commercialmente parlando, il saper diversificare il proprio prodotto offre la possibilità di sopravvivere, anche quando si abbattono delle tempeste economiche di effettiva gravità come quella che sta vivendo l’Italia, e il mondo occidentale in generale. Le persone oggi sono informate sulle tavole e le linee d’acqua, conoscono i materiali e sono giustamente esigenti. Ancora di più quando una tavola costa fatica, rinunce e sudore. Questa consapevolezza fa si che possa progredire nel tempo chi lavora bene, con coscienza, mettendo la propria esperienza e professionalità al servizio dei surfisti. In questa nicchia, chi si dedica con spirito di sacrificio al proprio lavoro viene apprezzato. Non è vero che le persone guardano solo l’aspetto economico, non tutte almeno. Ho trovato surfisti lungo il mio cammino che apprezzano il lavoro manuale, l’artigianalità e, se vogliamo, il piccolo difettuccio che una tavola custom a volte racchiude in se. Mi sembra un approccio consapevole e positivo. Costruire a mano tavole da surf può essere considerata una forma d’arte, e quest’ultima, presa nella sua accezione più ampia, racchiude tutto ciò che è espressione, che sia musica, pittura, fotografia, poesia, lavorazione del legno, della pietra. In quest’ottica uno shaper si trova a incrociare il proprio cammino con disegnatori, pittori, musicisti e fotografi. Nel caso, per esempio, di questo spazio che ci è stato concesso da SurfNews, insieme all’amico Alessandro Puccinelli, fotografo professionista, ci siamo messi a tavolino con l’idea di creare un servizio che valorizzasse sia il lavoro dell’artigiano (con i suoi strumenti, le sue linee e tecniche costruttive) che quello del fotografo, con la capacità conoscitiva e la visione, a volte estrema, che solo uno “shaper della luce”, dopo anni di esperienza, può avere raggiunto. Sarebbe bello esserci riusciti.

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